Il motivo per cui i vertici vaticani erano così contrari alla guerra in Iraq l’ha praticamente detto il papa rivolgendosi ai vescovi della Conferenza episcopale indonesiana. Si temeva la «catastrofe religiosa». Cioè, ulteriori guai per i cristiani che vivono nei Paesi islamici. 

L’interlocutore pontificio era il più appropriato, dal momento che nell’arcipelago indonesiano stanno duecentotrentadue milioni di persone, l’ottantasette per cento delle quali di religione musulmana; dunque, la più alta concentrazione islamica del mondo. Il papa sa bene che, nel caso si innescasse davvero una spirale di ritorsioni in posti come il Sudan, la Nigeria eccetera, nessuno muoverebbe un dito, e le potenze occidentali volterebbero la faccia dall’altra parte, i pacifisti per primi. 

Anche se si verificassero ecatombi di cristiani, nessuno vorrebbe sentir parlare di crociate e, di sicuro, i media punterebbero i riflettori altrove, col risultato che le opinioni pubbliche nulla saprebbero. Proprio dalle manifestazioni che abbiamo visto nei giorni della guerra nelle città europee traiamo l’insegnamento che l’«opinione pubblica» si muove solo se qualcuno la bersaglia di slogan, la organizza e paga le spese per portarla in piazza. 

Ma questi «centri di commozione» si attivano se possono cavarne vantaggi politici o economici. Dunque, i cristiani sudanesi, nigeriani eccetera possono star freschi fin d’ora. Nemmeno nei tempi in cui i re erano cristianissimi era agevole smuovere i governi per crociate: sono storicamente più quelle abortite che quelle effettuate. 

Neanche quando si trattò di liberare Vienna assediata dai turchi (Vienna, nel cuore dell’Europa) nel 1683 fu facile convincere le potenze cristiane a intervenire (e non si trattava di un «intervento umanitario», bensì di una difesa vitale): la superpotenza dell’epoca, la Francia di Luigi XIV, si chiamò fuori (anzi, remò contro); quelli che accolsero l’invito ad accorrere in armi dovettero venir pagati dal papa di tasca propria, perché le spedizioni costano e ognuno aveva problemi di bilancio da far quadrare. 

Figurarsi oggi, in tempi di secolarizzazione. Paradossalmente, l’unica opinione pubblica ancora sensibile sul tema religioso è, in Occidente, quella statunitense. Ma dovrebbe vedersela col suo establishment. Insomma, dal versante cristiano non c’è nulla da attendersi. Non resta che analizzare quanto i timori di cui sopra siano fondati. Per esempio, già nel 1991 Saddam provò a chiamare l’islam al jihad ma nessuno rispose. Altro esempio: la Ostpolitik nei confronti dell’allora Unione sovietica. In quel caso, furono proprio i timori di maggiori rappresaglie a ulteriormente silenziare il «dissenso» e la «chiesa del silenzio». E fu invece la grinta reaganiana a mettere l’Urss alle corde. Oggi, la paura delle genti occidentali non tanto dell’islam quanto della sua versione fanatica non fa che accrescere la tracotanza di quest’ultima: la cosa dovrebbe essere ormai evidente. 

Lo fosse stata fin dall’inizio, ci saremmo risparmiati lo spettacolo di pretini, fratini e suorine in corteo dietro a Casarini, Agnoletto e Bertinotti, le bandiere arcobaleno sugli altari nonché l’imbarazzo di coscienza di quella maggioranza (e internazionale) di cattolici che non si riconosce nel cosiddetto progressismo.