Leggo una notiziola da poche righe nella pagina degli spettacoli. Riassumibile così: i film italiani incassano pochissimo al botteghino. Anzi, pare che a ogni rilevamento venga battuto il record negativo precedente. Devo dire che me l’aspettavo. 

E non solo perché sono fra quelli che contribuiscono, con la loro assenza dalle sale, a mantenere il record (i film italiani non li guardo neppure quando passano in tivù, neanche se li allegano ai settimanali; mica per partito preso: mi annoiano). Ricordo che, quando mio padre aveva l’età che ho io adesso, se in tivù passavano un film francese cambiava canale commentando infastidito: «Francese… figuriamoci!». 

Pur non essendo laureato e neanche diplomato, mio padre applicava il semplice buonsenso dello spettatore medio. I film francesi erano noiosi. Sempre. Adesso tocca a me dire la stessa cosa, e non solo per i film francesi. Il fatto è che gli europei, ormai, sono abituati a mungere il contributo statale e fanno film solo in funzione della critica dei vari festival. 

Gli italiani, poi, sono ossessionati dal «capolavoro» e ambiscono ai nastri d’argento, le palme d’oro, i leoni alati e gli orsi di Berlino, Tel Aviv, Praga e via premiandosi addosso l’un l’altro. Ma i loro «generi» sono due e sempre due: il film «coraggioso» e «di denuncia» (sempre a senso unico, naturalmente) o la commedia scollacciata e impreziosita di volgarità natalizie «per famiglie».

Se «scavano nei sentimenti» te ne esci col mal di (o il volta) stomaco. E’ inutile, attualmente il cinema americano è imbattibile. Il suo segreto? E’ sempre epico, anche quando parla di intimismi. E si è dimostrato, più volte, capace di produrre anche capolavori. Sarà perché lo Stato non gli dà un dollaro? Temo di sì. 

E’ un circolo vizioso: se hai bisogno del denaro pubblico per fare un film, va da sé che finisci (o cominci) con l’allinearti politicamente e, dunque, ideologicamente. 

Gratta gratta, infatti, in Italia i cineasti si sa come la pensano. Se invece devi finanziarti col solo botteghino, a quel punto sei costretto a impipartene dei critici militanti e delle giurie dei festival perché il tuo signore e padrone è solo uno: il pubblico pagante.