Poiché un giorno, con sorpresa, ho trovato uno dei miei Antidoti riprodotto a tutta pagina sul settimanale «Tempi», permettetemi di ricambiare oggi la cortesia. La stampa di tutto il mondo ha comunicato l’avvenuta morte di Idi Amin, già dittatore dell’Uganda dal 1971 al 1979. 

Nel ricordare chi era, è stato dato breve risalto alla ferocia con cui governò e al particolare folclorico dell’antropofagia rituale sui nemici uccisi (sempre che sia vero: a volte, da quelle parti, certe voci venivano lasciate circolare allo scopo di ingigantire la propria terribilità). Nient’altro. 

Per fortuna l’ottimo Rodolfo Casadei, sul n. 32 di «Tempi» (7 agosto 2003) ci ha raccontato un po’ di più. Innanzitutto: Amin è morto in un ospedale di Gedda, Arabia Saudita. Infatti, il «responsabile di torture, crudeltà da incubo e dell’uccisione di trecentomila persone, quasi tutte ugandesi», viveva sotto la protezione degli arabi, che in lui vedevano «un protagonista sfortunato del progetto di islamizzazione-arabizzazione dell’Africa orientale». 

Raggiunto il potere con, al solito, un colpo di stato, fu «il primo presidente dell’Africa nera a rompere i rapporti diplomatici con Israele (presso cui aveva ricevuto parte del suo addestramento militare) e ad ospitare l’Olp, che in Uganda ebbe a disposizione fattorie che trasformò in campi di addestramento negli anni dei dirottamenti aerei». Nel 1976 l’aereo di linea francese dirottato da terroristi palestinesi e della Raf (le «brigate rosse» tedesche) fu fatto scendere nell’ugandese Entebbe. 

Gli ostaggi vennero poi liberati dagli israeliani con uno spettacolare raid che fu celebrato in un film. Il quinto matrimonio del presidente ugandese ebbe un testimone di primo piano: Yasser Arafat. Nel 1979 le forze della ribellione di Obote e Museveni, aiutate dall’esercito tanzaniano, presero Kampala e rovesciarono il regime. Amin, che era supportato (anche militarmente) dai libici, trovò asilo a Tripoli. Poi, forse dal 1989, l’Arabia Saudita gli mise a disposizione una villa sul mare e una pensione in dollari. Perché mi sono occupato qui della morte di Amin? 

Perché è un classico esempio di inutilità dei media. Ogni notizia viene classificata in base allo spazio quotidiano e all’importanza che vi annette il direttore della testata. Se, poniamo, in un certo giorno «fa notizia», che so, il delitto di Cogne, il resto passa in cavalleria. Paginate e paginate su di esso, con commenti e approfondimenti e interviste e ricostruzioni al computer e interventi di esperti. 

Su una cosa che, come diceva Solzenitisin, il pubblico avrebbe il sacrosanto diritto di non sapere. Ricordate quando morì Giovanni Agnelli? Per una settimana, tre quarti del quotidiano, di ogni quotidiano, furono consacrati all’evento. 

Filippo Facci, editorialista de «Il Giornale», a un certo punto si chiese provocatoriamente cosa fosse successo nel mondo in quella settimana (per saperlo, occorreva consultare la stampa estera). 

Eh, prima di tutto si deve vendere. O tenere la gente incollata allo schermo. Gli sponsor pubblicitari premono, ci sono posti di lavoro in ballo… Lavoro? Beh, vi sembrerà strano ma tanti ci campano, con le «notizie». Pensate quanti giornalisti benedicono l’avvento di Berlusconi, fonte pressochè inesauribile. Di «notizie».