Di fronte all’ennesimo «credente e praticante» che mi oppone i «mea culpa» della Chiesa, stufo di arrampicarmi sugli specchi per spiegare «ciò che ha veramente detto il papa», dichiaro forfait. La gente oggi parla (e intende) la lingua dei titoli dei giornali e dei talkshow, cioè slogan. Figurarsi se legge i lunghissimi e verbosissimi documenti della Chiesa. Neanche i preti li leggono. Mi domando se la gerarchia ecclesiastica se ne renda conto. Ormai, il cattolicesimo è diventato ciò che i sociologi chiamano un movimento carismatico, cioè un aggregato (piccolo o grande, non importa) di persone che seguono un leader, il papa in questo caso. Non c’è più, tra «vertice» e «base», un laicato che traduca le direttive del Capo in azione politica, in linguaggio concreto, in strutture autonome e armonizzate al fine di (ri)costruire una civiltà cristiana. Così, mancando questo diaframma, il popolo cattolico ha finito per usare il linguaggio dei preti, i quali parlano (ovviamente) da preti. Ed è per questo che un buonismo francescaneggiante è ciò che ormai caratterizza la mentalità cattolica. Ed è per questo che la «posizione» cattolica si è ridotta al no all’aborto e al preservativo; due «no», tra l’altro, che pochi cattolici sono in grado di motivare sensatamente senza far ricorso alla lingua di legno clericale («donarsi reciproco», «apertura alla vita»…).