Ho letto su Zenit del 5 marzo 2012 una critica di monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, al libro «Manca il respiro. Un prete e un laico riflettono sulla Chiesa italiana» di S. Xeres e G. Campanini. La critica è rivolta a un certo modo di intendere il Concilio Vaticano II (tipo “ermeneutica della rottura”) nella parte del libro a firma di don Saverio Xeres, che è professore straordinario di Storia della Chiesa presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e nel Seminario vescovile di Como e inoltre insegna Introduzione alla teologia all’Università Cattolica di Milano. C’è un passo, nella critica di Crepaldi, che mi pare magistrale: «Distinguiamo la modernità da quanto c’è nella modernità. La modernità è indubbiamente anticristiana, nella modernità invece ci sono molte cose buone. La modernità vuol dire che l’uomo non va mai oltre se stesso come diceva Hume, che dell’anima e di Dio non ci può essere conoscenza come affermava Kant, che il nostro agire morale non può avere motivazioni come diceva sempre Kant, che il mondo è un meccanismo che procede per sue leggi indipendentemente da Dio come diceva Cartesio, che l’uomo non può sapere cosa egli sia ma solo come funzioni come diceva il positivismo, che è vero solo quello che posso toccare come affermava sempre il positivismo, che la libertà precede la verità come sosteneva Fichte e così via… La modernità è la superbia della disperazione. Nella modernità, invece, possiamo trovare varie cose positive, che hanno origine o dal lascito cristiano o dal buon senso comune o da quanto resta della legge morale naturale».