«Verrebbe da dire: professori, piantatela. Le motivazioni che portano i docenti delle scuole superiori ad accompagnare le loro classi nelle aule del Palazzo di Giustizia sono nobili. Ma che immagine, che impressione trasmette di sé proprio la giustizia a queste comitive di liceali che vagano nei corridoi del tribunale? Ieri è toccato a un’altra classe, con i suoi bravi prof, andarsi a piazzare in un’aula di corte d’appello. E qui hanno visto: un giudice entrare in aula con mezz’ora di ritardo, senza dare spiegazioni né chiedere scusa; un altro giudice, dall’alto dello scranno, dire “ciao” al pubblico ministero; un imputato per il furto di un paio di pantaloni venire portato in ceppi in una gabbia da zoo, con i polsi stretti in blocchi d’acciaio; lo stesso imputato interrompere e spiazzare il difensore che proclamava la sua innocenza dichiarandosi colpevole e promettendo di non farlo più; avvocati parlare di sussunzione, sillogismo, servus servorum; il giudice, dopo avere promesso di essere chiaro in modo da far capire agli studenti quanto accadeva, inanellare numeri interminabili di leggi e di commi; un avvocato dire “sarò telegrafico” e parlare per dieci minuti. La sostanza è che dell’ottanta o novanta per cento di quello che accadeva davanti a loro non hanno probabilmente capito nulla, ma il dieci o il venti per cento che si capiva raccontava di una giustizia malfatta, sbrigativa, crudele». Questa è la prima parte di un articolo di L. Fazzo sull’inserto milanese de «Il Giornale» (6.6.23).