Sono in treno. Seduto davanti a me c’è un giovane. Indovinate come è vestito. Maglietta mezze maniche bluastra con una scritta americana senza senso. Jeans. Scarpe di gomma. Al collo, una medaglietta di quelle da militare (americano). Unico bagaglio, uno zainetto di colore indefinibile. Dalle orecchie sporgono i fili bianchi delle cuffie, collegate a un marchingegno da cui suppongo esca musica. I pollici armeggiano frenetici sul marchingegno. Dopo un’ora estrae dallo zainetto un telefonino ultima generazione, e i pollici si scatenano su questo. E’ quasi ora di cena. Pesca dallo zainetto uno snack e una lattina di cocacola. Finito il pasto, dallo zainetto esce un computer portatile. Nello zainetto non c’è altro (non c’è più posto). Stiamo per arrivare. Mi chiedo: fuori fa freddo, cosa si metterà ? Domanda stupida. Guardo sulla mensola. Indovinate cosa c’è. Indovinato: una felpa col cappuccio. Quello che ho osservato non è un giovane medio o tipo. No, è proprio un giovane e basta. Sì, perché sono TUTTI così. Tutti. Stesso look, stessa tecnologizzazione. Il bruto informatizzato. Ovviamente, è stato seduto sbracato tutto il tempo. Se avesse avuto giacca e cravatta, l’abito stesso lo avrebbe costretto alla posizione composta. Se lo metterà , certo, quando troverà lavoro in qualche ufficio. Ma pure lì resterà «uguale»: giacchetta e pantalonucci neri e attillati, scarpe a punta nere con lacci e lunghe un metro, cravatta a striscia. Questi «ggiovani» odierni, però, avrebbero orrore di un regime che li costringesse a una tenuta uniforme (come i Balilla del Ventennio). «Liberamente» scelgono l’uguaglianza-stampino e si vestono come gli americani del Bronx. Quando ne hai visto uno li hai visti tutti. E’ la globalizzazione, bellezza. E’ il mondo dei decerebrati sognato dai teorici del Liberté, Egalité, Fraternité. Soprattutto Egalité. Sono stato giovane negli anni Sessanta, quando ancora i ggiovani cercavano l’originalità nell’abbigliarsi, non di rado rasentando l’eccentrico. Forse eravamo cretini. Ma certo non piatti. Spero di fare in tempo a NON vedere il futuro che ci aspetta.
il blog di Rino Cammilleri