Avendo appreso che Milano è la città più cara d’Italia e addirittura una delle più care del mondo, un moto di orgoglio si è fatto strada in me. Poiché questa notizia ha fatto il giro dello Stivale, già pregusto gli sguardi d’invidia con cui verrò trafitto ogni volta che dovrò recarmi altrove. «Ah, lei vive a Milano?», «Sì, io sì», «Ooooh!». 

Pensiero inespresso soggiacente al moto di meraviglia: «Questo qui deve essere ricco». Così, dal momento che vantare amicizie ricche fa piacere a tutti, tappeti rossi e prego-si-accomodi-dottore mi aspettano dall’Alpi alle Piramidi. Ora che si è sommata l’ancor più recente informazione Istat sul «valore aggiunto» fornito da Milano alla ricchezza nazionale (dal che si deduce che «sotto la Madonnina si produce più ricchezza di tutt’Italia», come recitava un titolo di giornale), la boria mi ha gonfiato anche le tasche. 

Naturalmente, ogni qual volta sarò altrove, mi guarderò bene dal dire che il mio, di «valore aggiunto», finisce tutto nei portafogli di taxisti, baristi, ristoratori, casse comunali e psichiatri. Mi è stato appena comunicato che l’affitto di casa mia verrà triplicato alla scadenza. Trovata l’ennesima multa per gratta-e-sosta appena scaduto, ho speso un euro (quasi duemila vecchie lire) di metrò (la sauna è gratis) per andare sedermi in un tavolino di bar qualsiasi (ripeto: qualsiasi) purchè all’ombra: un euro e ottanta di caffè (quasi quattromila vecchie lire). 

Oh, cara Milano: non sei ancora del tutto ma sicuramente resterai una città di ricchi (nel senso di: per soli ricchi), perché il ceto cosiddetto medio pendolerà finchè morte non sopraggiunga dando il colpo di grazia al tuo famoso problema del traffico. Così, dall’imbrunire in poi qui vivranno solo due categorie di persone: quelle blindate e quelle che non hanno nulla da perdere. Con la polizia nel mezzo a cercare di tenerle separate. Milano è la città del dané (denaro, in italiano), perché stupirsi se tutti ne vogliono quanto più possibile?