Nel 1973 la Corte Suprema degli Stati Uniti legalizzò l’aborto, traendo spunto da un caso che fece epoca, la cosiddetta causa «Roe vs. Wade». Jane Roe (nome di fantasia per tutelarne la privacy) era al terzo mese della terza gravidanza indesiderata, frutto di una vita il cui «periodo migliore», parole sue, erano stati «i tre anni in riformatorio».

Infanzia infelice, scappata di casa, drogata, sbandata, mille mestieri, tentativi di suicidio, rapporti anche omosessuali… Insomma, Jane Roe era il trastullo ideale di ogni profittatore. Fino a quando due avvocatesse femministe, appartenenti alla upper class di Dallas, trovarono in lei il grimaldello per modernizzare l’America. 

Oggi, Jane Roe, il cui vero nome è Norma McCorvey, è tornata in tribunale per chiedere la revoca di quella sentenza di trent’anni esatti fa, perché adesso è diventata una delle esponenti di punta del movimento antiabortista americano. Il bello è che la donna che è passata alla storia per aver fatto introdurre il diritto d’aborto nella legislazione americana non ha mai abortito in vita sua. Sì, i primi due figli furono dati in affido, e così il terzo. 

Perché, nelle more degli appelli e dei ricorsi, quest’ultimo ebbe tutto il tempo di nascere.