L’attuale nostro Presidente della Repubblica è una figura da tutti rispettata, a differenza di non pochi suoi predecessori. Finalmente. 

Egli davvero, come recita la Costituzione, «rappresenta l’unità della nazione» al di sopra delle parti. Per questo tutti gli vogliono bene e fanno quadrato quando qualcuno cerca di “tirarlo per la giacchetta” di qua o di là, magari ricordando il suo ruolo di Governatore della Banca d’Italia ai tempi dell’attacco alla lira provocato dalla speculazione internazionale (dopo una disperata difesa fu necessario imboccare la via della svalutazione bruciando somme enormi) o a quelli del misterioso «affare Telekom». 

Nulla, in entrambi i casi, si può addebitare all’allora controllore dei soldi degli italiani, che agì nel pieno rispetto delle leggi. Qui rimarchiamo soltanto l’immediato grido «il presidente non si tocca!» urlato di volta in volta da chi, con altri presidenti, non usò tutti questi riguardi. 

Tra parentesi, è curioso il fatto che, nelle due macchie sulla veste della sinistra (il presunto scandalo Telekom e l’assassinio del commissario Calabresi), i «grandi accusatori» si chiamino uno Marini e l’altro Marino (sempre per celia, Marino Marini era un pianista di musica leggera famoso negli anni Cinquanta). 

Il Presidente, dicevamo, si è distinto e si distingue per un’opera di “ricucitura morale” del tessuto della memoria nazionale che ci ha fatto riscoprire la fierezza dell’italianità ricordando, nei suoi discorsi e nelle sue inaugurazioni, il grande cuore italiano (che si rivelò anche in tempi tristi quali quelli succeduti alle famigerate «leggi razziali» del 1938). 

Ma la sua, a ben guardare, rischia di essere una rivalutazione “datata”. Infatti, l’esposizione sul Quirinale del tricolore napoleonico, l’esaltazione del Risorgimento e della Resistenza senza i quali l’Italia sarebbe stata «peggiore», l’elogio della scuola statale rimandano a una mentalità che non esiste più da un pezzo e che non a caso ha i suoi laudatori fra persone ormai ultraottuagenarie. 

Qualcuno se ne è accorto, come Mario Palmaro su «La Provincia» del 18 settembre u.s. Il commentatore ha riletto il discorso d’inaugurazione dell’anno scolastico 2003-2004 e vi ha visto una concezione «neorisorgimentale e veteroazionista». Cito: «Ciampi ha delineato una vera e propria preminenza ontologica della scuola di Stato, una sorta di “centralismo pedagogico” per il quale gli istituti privati sono un’appendice del sistema governativo». In effetti, la cosa andava bene quando la coesione nazionale si fondava «sulla implicita e indiscutibile convinzione che ci fosse una morale comune». 

Ai tempi, insomma, in cui la maestra faceva dire il Pater prima di iniziare le lezioni e nessuno se ne lagnava, agnostici e Testimoni di Geova compresi. «Ma credo che molti genitori di oggi le avrebbero fatto passare dei guai». 

Già: «dal mangiare tutto quello che hai nel piatto all’idea che la castità è una virtù» la maestra inculcava una serie di valori condivisi e pacifici. Ma oggi è un terno al lotto: la maestra può essere, sì, una che insegna il Pater, ma può anche essere una «che spiega al pupo l’uso del preservativo». Conclude il Palmaro: «In uno scenario come quello attuale la libertà di educazione dei figli implica la libertà di organizzare scuole in cui i maestri non insegnino valori e principi che corrodono o addirittura capovolgono ciò che faticosamente i genitori tentano di tramandare». La soluzione: «trasferire gradualmente la gestione del sistema scolastico dallo Stato alla società» per metter fine «alla vergogna di genitori costretti a sacrifici economici seri per esercitare questo diritto di libertà». 

Lo Stato dovrà, certo, «stabilire degli standard minimi di formazione vincolanti per tutti», ma il suo destino come educatore è segnato. «Per il semplice tragico fatto che questo Stato non sa più, come Pilato, quid est veritas». Difficile dar torto al Palmaro. Difficile, anche, il traghetto dalla Prima alla Seconda Repubblica. Dovremo, forse, attendere il tempo in cui le ragioni anagrafiche faranno aggio sul resto.