Diceva Petrolini che siamo dei pacchi che l’ostetrico consegna al becchino. 

Nel tragitto percorso dai pacchi suddetti la mentalità corrente ha inserito un obbligo cogente che aggrava la situazione: la «vita» deve essere di «qualità», sennò non la vogliamo. La minaccia dell’anticipata consegna al necroforo del pacco di qualità inferiore a quella pattuita non è altro che la forma estrema di quell’infantilismo che ha cominciato a contagiare il pianeta nel Sessantotto. 

Ricorda infatti il ricatto sentimentale del bambino capriccioso di fronte al papà: se non fai quello che voglio, non mangio. Sottinteso: mi faccio del male per farti soffrire, giacchè so che a me tieni. 

Forse non a caso la pratica degli scioperi della fame è una forma di protesta cominciata proprio col Sessantotto. Il problema è di definizioni: cosa vuol dire «qualità della vita»? 

So già che i più credono di saper rispondere a questa domanda, ma la questione è più sottile. Ai tempi della filosofia scolastica l’arte della definizione era considerata di somma importanza e necessariamente propedeutica a ogni ragionamento. 

Se non ci si metteva preventivamente d’accordo sulle definizioni si rischiava il parlare a vanvera, il dialogo fra sordi, l’equivoco. Infatti, «definire» vuol dire letteralmente «mettere dei confini», «delimitare». 

Solo dopo essersi accordati su quel che una cosa è e su quel che non è si può cominciare a dialogare, dibattere, discutere. Invece, la fondamentalissima «qualità della vita» rimane ancora nel vago; tutti credono di sapere in cosa consista ma un’indagine approfondita rivelerebbe una variegata panoplia di opinioni. Certo, se si tratta di un malato senza speranza e che magari soffre atrocemente, allora è facile. Ma, a ben pensarci, un obeso, un povero, uno sfortunato cronico, un brutto, un antipatico si può dire che abbiano una «qualità della vita» tale da renderli contenti? 

Essere «contenti», oggi, richiede standard e performances sempre più impegnativi, e sono in aumento quelli che non riescono a tenere il passo. D’altra parte, è un interrogativo che il pensiero «laico» prima o poi dovrà seriamente porsi: la vita è «mia»? 

Politicamente parlando, esiste ancora una nozione condivisa di «bene comune»? Il punto è questo, infatti, perché secondo le categorie classiche io non mi appartengo e se mi chiamo fuori a qualsiasi titolo, dal suicidio tout court a quello rateizzato della tossicodipendenza, defraudo la società del mio apporto e qualcuno dovrà remare al mio posto (senza però lasciare il suo, di remo). 

Credo che sia questo il fondamento filosofico-giuridico da cui la Corte europea per i diritti umani ha tratto la sentenza del 28 aprile scorso, con la quale ha sancito che il diritto alla vita «non può essere interpretato in modo tale da conferire un diritto diametralmente opposto». Il caso, lo si ricorderà, era quello della malata inglese che chiedeva il permesso legale per il «suicidio assistito». 

Si tratta di uno dei tanti «casi limite» che, di volta in volta, vengono usati come grimaldello per aprire la strada all’eutanasia. Una strada lastricata di slogan, fin dal primo («l’utero è mio», il grido delle femministe sessantottarde) e fino all’ultimo, antinomico: «ridare dignità alla vita tramite la morte».

Ora, è la terza volta che le istituzioni europee bocciano l’eutanasia (1997, Consiglio d’Europa; 1999, Parlamento europeo), ma l’Olanda l’ha legalizzata e il Belgio si sta preparando. Qui qualcosa non quadra: com’è che la Ue si ritrova solertissima quando c’è da condannare «violazioni» sulle dimensioni dei piselli e il diametro dei fagiolini, e anche (meritoriamente) sulla eccessiva lunghezza delle cause civili italiane, ma non batte ciglio in questi casi di ben più grave momento? 

A pensar male, qualcuno deve essersi accorto degli spaventosi costi assistenziali e sanitari di una società in cui la vecchiaia si è allungata in modo imprevisto, e ha deciso che forse è meglio lasciar correre: sarà la società stessa a reclamare uno sfoltimento delle sue «unità improduttive». E il punto filosofico verrà affrontato e risolto, democraticamente, a maggioranza. Più «laico» di così -è il caso di dirlo- si muore.