Occupandomi non di rado di divulgazione storica, altrettanto non di rado mi sono tirato addosso gli strali degli storici di mestiere, che poi sono quelli che hanno un posto a qualsiasi titolo nell’università. Essendo laureato in Scienze Politiche, ho conosciuto veri geni seduti su cattedre di storia ma anche emeriti cretini. Tutti, però, unanimi nel definire «scientifico» il loro lavoro. Talvolta con un’ossessione sospetta, quasi una coda di paglia. Se vai a vedere, la «scientificità» consiste in a) frequentare gli archivi; b) aggiungere un corredo di note spesso superiore allo stesso testo; c) completare con una bibliografia (siti internet compresi) di quante più pagine possibile (che, se non garantisce di essere stata studiata, o almeno letta, testimonia tuttavia che la si conosce); d) premettere una pletora di ringraziamenti a questo & a quello. Ciò, tuttavia, non spiega come mai esistano storici marxisti, liberali, cattolici (a loro volta suddivisi in progressisti e non) eccetera. Il che significa che i fatti possono essere interpretati in mille modi. E che la visione filosofica è precedente all’indagine storica (le eccezioni sono rarissime). Così, certi fatti vengono presi per importanti e riportati; altri no. Oppure, alcuni sono evidenziati con la matita rossa ed altri sottovalutati. A volte basta un aggettivo. Col risultato finale di una «scientificità» molto simile a quella di Omero, che almeno non aveva la pretesa di far parte della casta. Se ne avevo qualche dubbio, me l’ha tolto la lettura di Della storia (Sugarco), di Marco Tangheroni, uno storico accademico che ho personalmente conosciuto e che stimo. Naturalmente lo stimo perché la sua visuale filosofica coincide con la mia. Come potrei stimare uno che, per quanti gradi accademici abbia, della storia non ha capito niente?