In quella «periferia esistenziale» che è il centro di Milano ogni mattina esco di casa e affronto il quotidiano slalom tra i mendicanti, accattoni, zingari e postulanti vari. Ogni bar, ogni panetteria, ogni supermercato ha, davanti, il suo bravo africano col cappello in mano e la lagna querula. Uno ogni venti metri circa. Se fai un giro e torni dopo qualche ora, magari ne trovi uno che si concede una pausa conversando allegramente col suo smartphone. Certi sono tanto strategicamente posizionati che devi quasi scavalcarli per poter passare. Sulla porta della chiesa (visita quotidiana) un cartello vieta di chiedere soldi dentro. E loro ti aspettano fuori. Abito da vent’anni in una strada dove, da vent’anni, almeno quattro tra giovanotti e giovanotte immancabilmente mi vi si avvicinano per domandarmi allegramente qual è l’ultimo libro che ho letto. Poiché la ditta li cambia ogni giorno, ogni giorno –da vent’anni- devo cortesemente respingerli. A volte più volte al giorno, perché magari esco più volte. A casa non rispondo più al telefono fisso, per non essere ossessionato dai call-center. Talvolta mi chiamano sul cellulare, ma se non riconosco il numero non lo apro. Si può campare così? La «solidarietà» ha un limite psicologico. Si chiama stress.