Insomma, qualcuno prima o poi dovrà spiegare perché tutte le epidemie che hanno sconvolto e sconvolgono il mondo vengono sempre da laggiù. Se non si vogliono prendere in considerazione le sofferenze, si calcoli quanto costano, in termini di spesa sanitaria e di giornate lavorative perdute, le influenze che ogni anno mettono l’Occidente (cioè, la sola parte del pianeta che produce; anche per gli altri) a letto. 
Sì, le industrie farmaceutiche ci guadagnano, ma è Pantalone che ci perde. I nomi che vengono dati a queste malattie, che siamo ormai rassegnati a considerare facenti parte del normale panorama, sono invariabilmente «shangai», «hong kong», «thailandese» eccetera. In realtà questi sono solo i porti da cui le influenze si diramano, ma dette influenze nascono tutte nel cuore dell’Asia. Da polli, dai maiali, da chissà cosa e chissà perché. Si può andare avanti così? 
Leggiamo sul Corriere della Sera del 16 u.s. un’intervista allo storico della medicina Giorgio Cosmacini. Il quale ci informa che anche la famigerata Peste Nera, che nel 1348 sterminò un terzo degli europei, ebbe origine laggiù. E origine dolosa: l’anno prima, i mongoli che assediavano i genovesi a Caffa in Crimea lanciarono con le catapulte sui difensori i cadaveri dei loro morti appestati. Guerra batteriologica. E le pulci infette navigarono sui legni cristiani fino in Europa, producendo la catastrofe che sappiamo. 
Il collasso demografico fu tale da determinare quello economico (sempre se vogliamo dare la priorità ai quattrini) e ci vollero secoli per riprendersi. Sarebbe interessante indagare sull’origine di tutte le altre epidemie che hanno decimato il mondo sia prima che dopo tale data: magari avremmo qualche sorpresa. Piaccia o no, la globalizzazione c’è già da un pezzo, e quel che succede di male in un punto qualunque del pianeta riguarda tutti. La tecnologia ha reso obsoleto il concetto di «affare interno», almeno per certe cose. Ricordate Chernobyl e la nuvola radioattiva che sorvolò l’Europa? 
L’unico effetto politico che ebbe fu quello di togliere ogni velleità nucleare agli italiani, e solo a loro. E di far guadagnare un sacco di soldi ai «profeti» rockettari del «no nukes», nonché posti in parlamento al sole-che-rideva (il cui adesivo, appicicato sul vetro della Dyane arancione, faceva la funzione che oggi ha la bandiera arcobaleno). Ma delle influenze nessuno si è mai preoccupato più di tanto, perché non uccidevano (anziani cardiopatici e asmatici a parte). Ebbene, adesso ce n’è una che lo fa. Che diremmo se uno accendesse un fuoco di ramaglie nel suo giardino ma il vento portasse il fumo dentro il nostro salotto? Il semplice codice civile sanziona un comportamento del genere sotto il titolo «divieto di immissioni». Invece, i sostenitori di tribunali internazionali preferiscono sanzionare il politically uncorrect. 
Per fortuna ci pensa la tanto deprecata libertà di mercato a fare giustizia. E a preoccupare quegli occidentali che vedono crollare i loro affari. Colpiti al cuore (cioè, nel portafoglio), magari si decideranno finalmente a mettere la pratica intitolata «L’influenza nell’età della globalizzazione» all’ordine del giorno. Per quella intitolata «Tutela dei diritti umani» dovremo, ahimè, attendere una forma di violazione degli stessi che sia contagiosa e che, soprattutto, faccia perdere denaro a quelli che trafficano con gli «untori».Â