Per motivi di viaggio ho assistito alla messe di Natale (giovedì), Santo Stefano (venerdì) e domenica in tre chiese diverse. In tutte e tre il celebrante si è sentito in dovere di corredare di una sua personale mini-omelia ogni passaggio. Naturalmente, gli «avvisi» (parrocchiali, diocesani, musicali e quant’altro) sono stati dati prima della benedizione finale e del «La Messa è finita, andate in pace» (con le sue varianti e/o aggiunte: «andiamo in pace», «buona domenica» etc.), così che anche gli avvisi entrano a far parte del Canone. Quest’ultima cosa la fanno tutti, perché altrimenti i fedeli se ne vanno e non sentono i preziosissimi avvisi. Giusto. Ma, mi chiedo: se se ne vanno, forse vuol dire che non sono interessati; allora, perché costringere tutti a sentirli, gli avvisi? Boh, cose di preti. Infatti, ormai la messa è, appunto, «cosa nostra» (cioè, dei preti), i quali ne fanno quel che loro pare: non sono forse loro a «presiedere l’assemblea eucaristica»? Eh, con certo clero ci vuole pazienza. Ma anche con chi escogita e dà alle stampe le interminabili invocazioni a cui si deve rispondere in coro «ascoltaci, Signore» (non a caso oggetto di una famosa gag di Verdone). Se non ricordo male, nel Vangelo lo stesso Cristo raccomanda: «Quando pregate, non fate come i pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole». Ahimè, dopo duemila anni il Verbo si è fatto Chiacchiera e, purtroppo, è venuto ad abitare in mezzo a noi.