Vorrei confessarmi, vado in chiesa. I due confessionali sono vuoti, il prete sta confessando una attempata signora seduto con lei su uno dei banchi. La signora parla concitata, il prete ascolta. Si sente praticamente tutto. I fedeli fanno finta di nulla. Sto a debita distanza. Dopo un quarto d’ora, a gesti faccio capire che vorrei confessarmi anch’io. Il prete annuisce. Dopo mezz’ora la confessione non è ancora finita, così prendo e me ne vado. Alcuni giorni dopo, entro in una chiesa milanese dove, da tal ora a tal altra, confessano. Lucetta rossa accesa, mi siedo e aspetto il mio turno. Il confessionale è una moderna cabina con la porta di vetro smerigliato. Intravedo una signora che parla. Attendo, anche qui, mezz’ora abbondante. Finalmente tocca a me, entro e mi trovo faccia a faccia col prete. Scarico l’elenco e in tre minuti sono fuori. Ora, io sono una persona conosciuta nell’ambiente ecclesiale e non mi va di raccontare le mie miserie a un prete col quale potrei trovarmi, in seguito, a dover polemizzare per motivi professionali. Dunque, avrei necessità della grata interposta tra il mio viso e quello del confessore. Si chiama privacy, l’aveva inventata la Chiesa ma vi ha rinunciato e oggi la usa solo Rodotà. L’Anno Sacerdotale è trascorso, tuttavia il Papa, nelle sue esortazioni alla pratica della confessione sacramentale, non ha tenuto conto del moderno arredo. Né dell’imbecillità di certo clero. E’ quest’ultimo, infatti, a scoraggiare il ricorso alla confessione in quei pochi che, in tempi di cristianizzazione, vorrebbero ritornarvi.